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Protomartyr – Relatives in Descent: Recensione

Ci sono album che fin dal primo ascolto ti entrano dentro, album che sembrano essere stati creati espressamente per te, album che, se fosse possibile, crederesti che siano stati fatti a tavolino decidendo la percentuale di ogni influenza interna al sound della band, solo per farti piacere. Fan del post punk, ma anche del punk primigenio e delle sue trasformazioni più dure e distorte, fan del noise, fan del romanticismo, fan del british sound: presenti? Dovreste esserlo, perché questo album vi farà innamorare.

I Protomartyr nascono una decina di anni fa a Detroit e portano incisa nel Dna (sia musicale sia stilistico, dire che sono l’antitesi delle rockstar è dir poco) l’identità culturale della loro città. Dal 2012 a oggi hanno deliziato varie orecchie fini grazie alla pubblicazione di quattro album, l’ultimo dei quali è appunto “Relatives in Descent”, un vero e proprio gioiello.

Dodici brani, un viaggio. Sali e scendi vertiginosi fra tensione e libertà, buio e melodia, dove a farla da padrone è la voce istrionica, un po’ Nick Cave, un po’ Mark E. Smith e un po’ John Lydon del leader Joe Kasey. A Private Understanding parte geometrica per poi frantumarsi in un ritornello esplosivo, My Children gode di un riff pop azzeccatissimo, Caitriona è una scheggia di alternative americano fine anni Ottanta.

Windsor Hum ricorda nella ritmica certe soluzioni già sperimentate decenni fa da band come i Joy Division, Don’t Go to Anacita è punk inglese del nuovo millennio fra Palma Violets e Vaccines, Night-Blooming Cereus puro dark, Half Sister la perfetta cavalcata finale. Palma per il miglior brano a Up the Tower: cassa dritta, chitarra presente ogni 4/4, ritornello impazzito che manco gli Swans e inframezzi di un romanticismo melodico unico, da Carl Barat sfatto, ubriaco e con gli occhioni a cuore. Tante influenze, un’unica, meravigliosa, originalità.

Andrea Manenti