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Riflessioni Inquietanti: Il Business delle Cover

Datevi una cover e un canale di diffusione e solleverete il mondo. L’equazione è elementare e anche abbastanza ovvia: se al grande pubblico si propone un classicone – seppur rivisitato – l’attenzione e il successo sono immediati, mentre se alle orecchie altrui arriva un inedito il percorso è più in salita. Il dato nuovo  (positivo o negativo, a voi l’ardua sentenza…) è però che operazioni di questo tipo si stanno rivelando sempre più la corsia preferenziale per una band rock al fine di ottenere visibilità in un momento in cui il genere sta sempre più zoppicando nei circuiti mainstream.

Parola della Bibbia delle classifiche, Billboard: in America la cover paracula rilancia-carriera sta diventando ufficialmente una tendenza. Per avere l’ultima conferma citofonare ai Weezer, che con una cover di Africa dei Toto si sono inaspettatamente trovati a scalare le charts americane al punto di ritrovarsi al numero uno per più settimane di fila nelle Alternative Radio e al numero 54 della Hot 100 Usa. Senza contare le otto milioni e mezzo di visualizzazioni su Youtube di un video che consiste soltanto nello screenshot di un tweet. Già, perché l’idea di rispolverare il pezzone dei Toto ai Weezer pare sia venuta per puro caso dopo il suggerimento di un fan quattordicenne della band proprio via Twitter.

Ci sono però almeno 15 altre cover rock che stanno spopolando nelle classifiche a stelle e strisce, dalla versione di Wish You Were Here dei Pink Floyd firmata dagli Avenged Sevenfold o agli Hell Yeah e alla loro rivisitazione di una pietra miliare come I Don’t Care Anymore di Phil Collins.

Il fenomeno, in fondo, non è di quelli sconvolgenti ma è ormai prassi o quasi soprattutto dagli Anni 90 (Jeff Buckley e una certa Hallelujah vi dicono niente?) e non ci vuole un genio per capire che con una cover, bene o male, non si sbaglia mai. La cosa singolare è però che sempre più big scelgono di rinfrescare una carriera magari un po’ stagnante dando sfoggio di qualche grande hit altrui. Come fece Puff Daddy componendo la sua elegia per Notorious B.I.G. chiamando in causa niente meno che i Police, o come Marylin Manson con Sweet Dream degli Eurythmics, cover delle cover che contribuì in un certo senso a lanciare definitivamente il genere metal/emo.

Maledette etichette? Maledetti canali di streaming? Maledetti talent show, fondati essenzialmente sull’esecuzione di cover che nella maggior parte dei casi restano i masterpiece degli artisti in gara, destinati poi a scomparire nel dimenticatoio? Maledette radio, col dito puntato contro nel periodo storico in cui trasmettono meno canzoni nuove rispetto a sempre? Di tutto un po’. Certamente in un’epoca in cui imporsi nella scena musicale soprattutto mainstream è sempre più complesso, la scorciatoia della cover sembra una strada sempre più comoda ed efficace.
Prendiamo ancora il caso dei Weezers: prima della cover dei Toto, non avevano mai nemmeno sfiorato il top della classifica delle trasmissioni in radio di Billboard. Con “Africa” hanno blindato il numero uno per dieci settimane di fila. Dieci. Settimane. Di fila.

Toccherà la stessa sorte al mercato italiano? Per trovare qualcosa di simile bisogna forse tornare indietro agli Anni 60 e 70, quando le band di casa nostra si divertivano più che altro a coverizzare con traduzioni da brivido (e non di quelli di piacere…) le hit da oltre Manica o oltre oceano.
La storia è poi costellata da tentativi più o meno riusciti, tra vere e proprie  riletture poetiche (Battitato da Il Cielo in una stanza di Paoli ai pezzi di De Andrè negli album Fleurs), rinvigorimenti in allegria (i Super B e l’Amore Disperato di Nada), tentativi anche ben riusciti di farcela (la rilettura semipunk di Umbrella di Rihanna da parte degli italianissimi Vanila Sky) fino ad arrivare appunto ai minestroni televisivi in cui aspiranti talenti vengono dati in pasto all’audience sotto forma di cover più o meno riuscite, disponibili poi in tempo quasi reale sui canali di streaming. Persino il festivalone di Sanremo da qualche anno ha inserito la “serata cover” affamato, evidentemente, di indici d’ascolto.

Perché le cover funzionano. Funzionano sempre. E forse sono anche lì a ricordarci quanto è desolante il panorama mainstream attuale. Questo è il vero dolore. Per colpa dell’offerta? Forse. Ma anche e soprattutto per “colpa” della mancata voglia di metterci un po’ di impegno e di ricerca da parte del pubblico. Tutto facile. Tutto immediato. Tutto com’è.
Insomma, se è vero che le mode passano ma lo stile resta non ci resta che sperare in un bagno di cultura e di rinnovata voglia di imparare. Da parte di tutti. In fondo una cover è il male minore, perché può sempre insegnare qualcosa, soprattutto ai giovanissimi. E allora meglio un classicone rivisitato che l’ultimo trapper in vena di sproloquiarci nelle orecchie. Forse.

Federica Artina